“Vi saluto e sono Ciccèpavele u càpone”

Posted By on Gen 15, 2018


Ciccèpavele u càpone: è che così che si faceva chiamare Francesco Paolo Cazzolla (1857-1917), poeta-ciabattino, consigliere comunale di Noci (BA) tra il 1910 e il 1911.  Tra le guance scavate dalla fatica e dalla vecchiaia, si possono cogliere ancora parole di ammirazione, stima e stupore nei confronti di un uomo che fece sue le istanze dei più poveri.

La sua arma, una sola: la poesia.

Grazie ai suoi versi, Ciccèpavele, sulla cui intelligenza nessuno dubitava e dubita (càpone), si divertita a smascherare le corrotte logiche del potere della sua città. Ciccèpavele, poi, cercò anche concretamente, in qualità di consigliere, di opporsi alla meschina gestione amministrativa dei notabili e dei ricchi proprietari terrieri.

La sola genuina arma poetica, però, non potè vincere il muro dell’egoismo dei ricchi possedimenti e lo stesso Francesco Paolo fu isolato presso l’Ospedale psichiatrico di Nocera Inferiore.  Cazzolla, dunque, si ritrovò barricato in ospedale, lontano da tutto e da tutti. Aveva lasciato la sua casa, i suoi cari, la sua bottega e la sua calandra, amica inseparabile del poeta-ciabattino alla quale, come vuole la leggenda, aveva insegnato il canto. Gli studi sulla sua figura hanno portato nel 2012 alla pubblicazione del volume “Vi saluto e sono Ciccepàvele u Càpone: storia di Francesco Paolo Cazzolla” (Bari, Favia, 2012) grazie ai lavori di Giulio Esposito, Antonio Roberto, Vittorino Curci e Lorenzo Mannarini.

Quest’ultimo, in compagnia della sua band “Folkabbestia”, ha dedicato anche un brano all’importante e affascinante figura di Ciccèpavele. Il brano ” Cicce pe’ “, tratto dall’album live Pèrche del 2005, descrive poeticamente l’incontro tra Ciccèpavele u càpone e la sua calandra, avvenuto in un giorno di settembre, quando il ciabattino aprì all’uccello la sua bottega, avendo notato la sua difficoltà nel volare a causa della tramontana. Il poeta e la calandra vivevano ormai in simbiosi, erano “asola e bottone|piede e mocassino” e Ciccio Paolo non mancò di addestrare al canto la “sua unica passione” , che ormai ripeteva i canti partigiani e aveva fatto suo il sogno del padrone: combattere le brutture della sua città.

L’imperfetto, tempo predominante del brano, però, lascia già intravedere il mesto epilogo a cui è costretto Ciccio Paolo e lo stesso ritornello non fa altro se non ricordare l’allontanamento del poeta dalla sua calandra. La sequenza “Tra una rima e un colpo di martello|passavamo lieti le mattine|lavorava declamando versi|dedicati a gente di ogni tipo ” è già anticipata dal ritornello “Ciccepàvele u càpone, ha perdute u calandròne, chiù non sàpe ce fè, Cicce pe’, Cicce pe'”. Ciccio Paolo è costretto a lasciare Noci e a lasciare la sua calandra che rimase muta la mattina in cui Cazzolla fu costretto ad abbandonare tutto e a recarsi presso l’Ospedale psichiatrico di Nocera. Ciccio Paolo, che “vide ammutolire la speranza| tramontare il sol dell’avvenire”, giunge a Nocera e scrive ai suoi parenti: “Ero di Noci, or son di Nocera, non ero pazzo, or lo son davvero. Vi saluto e sono Ciccepàvele u càpone”.

La mattina in cui la calandra interrompe il suo canto è il momento in cui Ciccio Paolo “vide scomparire l’utopia”. Al poeta-ciabattino non restava che piangere la sua ultima poesia. Trovo geniale il raro uso transitivo del verbo piangere che, a mio parere, crea un filo diretto tra Ciccio Paolo, la calandra e la Poesia, figlia dello stesso ciabattino e strumento che lo lega alla “sua unica passione”. Venuto meno Ciccio Paolo, viene meno la Poesia e la calandra non può far altro se non rimanere muta, mentre il poeta le regala piangendo la sua ultima poesia in un finale che fa venire la pelle d’oca. Gli ultimi versi, dunque, ripetuti già negli altri ritornelli, coincidono non solo con la fine della canzone, ma con la fine di una grande vita, quella di Ciccepàvele u càpone.

 

Folkabbestia-Cicce pe’

Eravamo asola e bottone
eravamo piede e mocassino
lui Ciccio Paolo il poeta ciabattino
io calandra, sua unica passione
c’incontrammo un giorno di settembre
che lottavo con la tramontana
lui apri per me la sua bottega
e così non ci lasciammo più

Tacco, suola, giorno dopo giorno
il mio padrone mi addestrava al canto
diligentemente ripetevo
“ Urla il vento, soffia la bufera ”
mentre la bottega si affollava
che pareva un covo bolscevico
amici miei venite ad ascoltare,
questo è il cinguettio dell’anarchia

Ciccepàvule u càpone ha pèrdute u calandràne
chiù non sape ce fè Cicce pe’ Cicce pe’

Tra una rima e un colpo di martello
passavamo lieti le mattine
lavorava declamando versi
dedicati a gente d’ogni tipo
dritti storti vecchi vanitosi
maschi loschi femmine leggere
e per il curato del paese
recita un rosario di sfottò

Ciccepàvule u càpone ha pèrdute u calandròne
chiù non sape ce fè Cicce pe’ Cicce pe’


Eravamo asola e bottone
eravamo piede e mocassino
la mattina che rimasi muta
vide scomparire l’utopia
vide ammutolire la speranza
tramontare il sol dell’avvenir
e per darmi l’ultimo saluto
pianse la sua ultima poesia:

Ciccepàvule u càpone ha pèrdute u calandròne
chiù non sape ce fè Cicce pe’ Cicce pe’

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Vito Portagnuolo