Fil rouge

Sulle orme della bellezza


Ciccèpavele u càpone: è che così che si faceva chiamare Francesco Paolo Cazzolla (1857-1917), poeta-ciabattino, consigliere comunale di Noci (BA) tra il 1910 e il 1911.  Tra le guance scavate dalla fatica e dalla vecchiaia, si possono cogliere ancora parole di ammirazione, stima e stupore nei confronti di un uomo che fece sue le istanze dei più poveri.

La sua arma, una sola: la poesia.

Grazie ai suoi versi, Ciccèpavele, sulla cui intelligenza nessuno dubitava e dubita (càpone), si divertita a smascherare le corrotte logiche del potere della sua città. Ciccèpavele, poi, cercò anche concretamente, in qualità di consigliere, di opporsi alla meschina gestione amministrativa dei notabili e dei ricchi proprietari terrieri.

La sola genuina arma poetica, però, non potè vincere il muro dell’egoismo dei ricchi possedimenti e lo stesso Francesco Paolo fu isolato presso l’Ospedale psichiatrico di Nocera Inferiore.  Cazzolla, dunque, si ritrovò barricato in ospedale, lontano da tutto e da tutti. Aveva lasciato la sua casa, i suoi cari, la sua bottega e la sua calandra, amica inseparabile del poeta-ciabattino alla quale, come vuole la leggenda, aveva insegnato il canto. Gli studi sulla sua figura hanno portato nel 2012 alla pubblicazione del volume “Vi saluto e sono Ciccepàvele u Càpone: storia di Francesco Paolo Cazzolla” (Bari, Favia, 2012) grazie ai lavori di Giulio Esposito, Antonio Roberto, Vittorino Curci e Lorenzo Mannarini.

Quest’ultimo, in compagnia della sua band “Folkabbestia”, ha dedicato anche un brano all’importante e affascinante figura di Ciccèpavele. Il brano ” Cicce pe’ “, tratto dall’album live Pèrche del 2005, descrive poeticamente l’incontro tra Ciccèpavele u càpone e la sua calandra, avvenuto in un giorno di settembre, quando il ciabattino aprì all’uccello la sua bottega, avendo notato la sua difficoltà nel volare a causa della tramontana. Il poeta e la calandra vivevano ormai in simbiosi, erano “asola e bottone|piede e mocassino” e Ciccio Paolo non mancò di addestrare al canto la “sua unica passione” , che ormai ripeteva i canti partigiani e aveva fatto suo il sogno del padrone: combattere le brutture della sua città.

L’imperfetto, tempo predominante del brano, però, lascia già intravedere il mesto epilogo a cui è costretto Ciccio Paolo e lo stesso ritornello non fa altro se non ricordare l’allontanamento del poeta dalla sua calandra. La sequenza “Tra una rima e un colpo di martello|passavamo lieti le mattine|lavorava declamando versi|dedicati a gente di ogni tipo ” è già anticipata dal ritornello “Ciccepàvele u càpone, ha perdute u calandròne, chiù non sàpe ce fè, Cicce pe’, Cicce pe'”. Ciccio Paolo è costretto a lasciare Noci e a lasciare la sua calandra che rimase muta la mattina in cui Cazzolla fu costretto ad abbandonare tutto e a recarsi presso l’Ospedale psichiatrico di Nocera. Ciccio Paolo, che “vide ammutolire la speranza| tramontare il sol dell’avvenire”, giunge a Nocera e scrive ai suoi parenti: “Ero di Noci, or son di Nocera, non ero pazzo, or lo son davvero. Vi saluto e sono Ciccepàvele u càpone”.

La mattina in cui la calandra interrompe il suo canto è il momento in cui Ciccio Paolo “vide scomparire l’utopia”. Al poeta-ciabattino non restava che piangere la sua ultima poesia. Trovo geniale il raro uso transitivo del verbo piangere che, a mio parere, crea un filo diretto tra Ciccio Paolo, la calandra e la Poesia, figlia dello stesso ciabattino e strumento che lo lega alla “sua unica passione”. Venuto meno Ciccio Paolo, viene meno la Poesia e la calandra non può far altro se non rimanere muta, mentre il poeta le regala piangendo la sua ultima poesia in un finale che fa venire la pelle d’oca. Gli ultimi versi, dunque, ripetuti già negli altri ritornelli, coincidono non solo con la fine della canzone, ma con la fine di una grande vita, quella di Ciccepàvele u càpone.

 

Folkabbestia-Cicce pe’

Eravamo asola e bottone
eravamo piede e mocassino
lui Ciccio Paolo il poeta ciabattino
io calandra, sua unica passione
c’incontrammo un giorno di settembre
che lottavo con la tramontana
lui apri per me la sua bottega
e così non ci lasciammo più

Tacco, suola, giorno dopo giorno
il mio padrone mi addestrava al canto
diligentemente ripetevo
“ Urla il vento, soffia la bufera ”
mentre la bottega si affollava
che pareva un covo bolscevico
amici miei venite ad ascoltare,
questo è il cinguettio dell’anarchia

Ciccepàvule u càpone ha pèrdute u calandràne
chiù non sape ce fè Cicce pe’ Cicce pe’

Tra una rima e un colpo di martello
passavamo lieti le mattine
lavorava declamando versi
dedicati a gente d’ogni tipo
dritti storti vecchi vanitosi
maschi loschi femmine leggere
e per il curato del paese
recita un rosario di sfottò

Ciccepàvule u càpone ha pèrdute u calandròne
chiù non sape ce fè Cicce pe’ Cicce pe’


Eravamo asola e bottone
eravamo piede e mocassino
la mattina che rimasi muta
vide scomparire l’utopia
vide ammutolire la speranza
tramontare il sol dell’avvenir
e per darmi l’ultimo saluto
pianse la sua ultima poesia:

Ciccepàvule u càpone ha pèrdute u calandròne
chiù non sape ce fè Cicce pe’ Cicce pe’

index

Vito Portagnuolo

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PISA: La redazione di Fil rouge ha avuto l’onore di incontrare gli Amici della BUP (Biblioteca Universitaria di Pisa) e di discorrere con loro. L’associazione porta avanti ormai da cinque anni una vera e propria battaglia per ottenere la riapertura della Biblioteca: per il momento tutto tace, gli enti non sembrano farsi sentire e i libri scompaiono.

Per la prof.ssa Chiara Frugoni, presidente degli Amici della BUP, intervistata ai microfoni di Fil rouge, è un vero lutto, dal momento che

la Biblioteca chiusa è veramente un danno tremendo, non solo per la cultura e l’Università, ma anche perchè la biblioteca è un luogo di aggregazione per la cittadinanza.

E’ trascorso ormai un lustro dalla chiusura del pisano Palazzo della Sapienza e i motivi non paiono chiari; certo è soltanto il terremoto del 2012 che colpì l’Emilia, ma, ricordiamolo, l’unica struttura chiusa a Pisa dopo quel terremoto è proprio la Biblioteca Universitaria, i cui 600.000 manoscritti hanno subito una vera e propria odissea. Recente l’ingente danno arrecato al patrimonio librario, causato dalla rottura di alcuni tubi che hanno inondato il prezioso tesoro nascosto nella Biblioteca.

Se, dunque, come recita lo slogan della BUP -affisso alla base dell’eterna e immota impalcatura per la ristrutturazione della Biblioteca- la “cultura è ri-apertura”, appare davvero paradossale la chiusura di un’istituzione feconda come la Biblioteca Universitaria di Pisa. Dopo la recente inondazione, i libri, come afferma la prof.ssa Frugoni, hanno subito una “deportazione”, poichè in parte trasferiti a Lucca, laddove la consultazione risulta davvero un’impresa impossibile.

Dopo cinque lunghi anni di provocazioni e battaglie senza alcuna risposta, l’associazione ha fatto sentire nuovamente la sua voce e il prof. Michele Feo ha evidenziato ai nostri microfoni che, se non ci fosse stata una reazione da parte degli intellettuali,

con l’aria che tirava, con la prospettiva dichiarata di buttar via tutti i libri che non erano consultati da dieci anni -praticamente tutte le cinquecentine, gli incunaboli e i libri del Settecento- la Biblioteca Universitaria sarebbe andata al macero.

Ci auguriamo dunque che i lavori proseguano davvero e che il tesoro nascosto della Biblioteca possa finalmente tornare alla luce per continuare ad essere nutrice di professori, studenti e dell’intera cittadinanza.

Per conoscere l’intenso lavoro degli Amici della BUP, si raccomanda di visitare il sito: https://amicibup.wordpress.com/

Il file audio contiene l’intervista integrale alla prof.ssa Chiara Frugoni e al prof. Michele Feo.img_20170530_175025

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Chi era Uta di Naumburg?

Chi era Uta di Naumburg?


Posted By on Mag 9, 2017

Siamo a Naumburg, nella Cattedrale.  La luce penetra dalle vetrate e illumina sei coppie di magnifiche statue. Una tra tutte mi affascina: è la statua di Uta, incantevole.

Uta degli Askani di Ballenstedt fu una nobildonna vissuta nella prima metà dell’XI secolo, moglie di Ekkehard II di Meissen. Circa due secoli dopo, il “Maestro di Naumburg” realizzò le statue-ritratto dei benefattori della cattedrale, che furono collocate nel coro della chiesa dove possono essere ammirate anche oggi. La nobildonna Uta si stringe nel suo mantello con un atteggiamento sicuramente opposto a quello del marito, che invece mostra con orgoglio lo spadone e lo scudo. Inoltre, Uta non ci guarda ed è proprio questo che la rende affascinante: Uta guarda lontano con distacco e non si cura di noi spettatori. La sua bellezza è però sconvolgente e non a caso Umberto Eco avrebbe avuto voglia di invitarla a cena.

Il suo bel sembiante ha avuto una grande fortuna nel corso dei secoli: Uta era presente sui francobolli della Repubblica Federale di Germania, è stata oggetto di un dramma teatrale di Felix Dhünen (1934) e nello stesso anno la nobildonna era più viva che mai.

Nel 1934,  infatti, Walt Disney decise di realizzare il primo lungometraggio d’animazione della storia del cinema, Biancaneve, fiaba resa famosa dai fratelli Grimm.

Per Biancaneve, i disegnatori si ispirarono a Betty Boop, ma rimaneva arduo delineare il profilo della regina, che ogni invocava “lo specchio delle (sue) brame”. Fu così che uno dei disegnatori, Wolfgang Reitherman, consigliò a Disney di recarsi nella cattedrale della città di Naumburg. Disney rimase meravigliato dalla potenza espressiva del volto di Uta e decise di dare vita alla nota Grimilde. La regina però non poteva assomigliare in tutto e per tutto alla nobildonna Uta; il suo volto era troppo delicato per poter diventare la perfida regina di Biancaneve.

Ecco che i disegnatori le corressero la linea delle sopracciglia e delle labbra ispirandosi all’attrice americana Joan Crawford.  Nel 1937  intardaetavedeva così la luce Biancanevereginauta e i sette nani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


“Tra tutte le donne della storia dell’arte, quella con cui andrei a cena è Uta di Naumburg”

Vito Portagnuolo

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Oblivion

Oblivion


Posted By on Apr 11, 2017

Per le foto che non esisteranno mai, conservate in scatoloni che viaggiano nel tempo per giungere nella soffitta polverosa dell’oblio.
L’oblio, dove vanno a finire le cose incomplete, dimenticate o le persone completamente sole. O ancora, quei rapporti che non hanno avuto la forza di resistere. Resistere al tempo, alle ferite di battaglia o alle incomprensioni alte come muri. Quei rapporti che sono affogati, naufragando tra le onde della paura, dell’inganno.
Per tutti i volti che non conosceremo mai e per quelli incontrati una sola volta su un treno, sotto le luci al neon e sotto quella patina di solitudine profonda che trasmettono le stazioni.
E ancora, per tutti quei volti che non vedremo più e che la nostra fotocamera interna ha quasi dimenticato. Ed è quel quasi, l’elemento di cui non vorremmo mai fare a meno.
Quegli occhi di cui non ricordiamo più il colore.
Quella voce di cui non ricordiamo più il suono.
Quelle labbra, di cui sempre il sapore avremo nella memoria.
Per tutte le lettere d’amore piene di sentimento e di vita, mai spedite. Mai giunte al destinatario. Chissà quante relazioni si sarebbero salvate così. invece, manca il coraggio che viene divorato.
Per tutte le foto fatte e poi eliminate dalla memoria di quegli apparecchi telefonici, come per volerle togliere dalla propria mente… come se si potessero cancellare certi sguardi dal cuore.
Per tutte le volte che abbiamo preferito far vedere quanto ci amiamo, piuttosto che amarci davvero.
Per tutti i “no” che sarebbero stati invece delle belle esperienze, serate,ore, viaggi.
Per tutti quei profumi che ti hanno accarezzato la pelle, come il vento in una qualsiasi serata estiva.
Profumi che ti sono entrati nell’anima, nella gabbia toracica. E restano lì, come delle ferite che ogni tanto bruciano ancora. quel profumo che riconosceresti tra mille perché ti apparteneva. era “roba tua” e adesso non lo è più.
E finirà anch’esso su un qualunque treno con le luci al neon, nascosto in uno scatolo che viaggia e giungerà nell’oblio.
Non preoccuparti, ci saranno nuovi profumi che al contrario di altri, non si scorderanno mai del tuo.

Rene Magritte, The lovers, 1928

Rene Magritte, The lovers, 1928

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   R.P.

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Il solo pensiero di dover pensare

Il solo pensiero di dover pensare


Posted By on Mar 19, 2017

Premessa

 

Destinatario di questo scritto non è l’intellettuale che s’intende di filosofia, né chi più semplicemente sa bene come osservare l’ambiente che lo circonda interpretandolo in modo complesso. Il possessore di tali caratteristiche potrà trarre da questa lettura poco meno che qualche sorriso. Diverso è invece il caso di chi, in tutto e per tutto profano, si nutre inoltre di un pregiudizio negativo nei confronti della disciplina, tale da fargli rinnegare ogni valenza pratica quotidiana dello studio di essa e relegare la stessa nell’ambito delle sciocchezze di chi non sa cos’è la “vera vita”. A questi è indirizzato il mio lavoro.

Scopo di esso è non certo trasmettere nozioni di notevole difficoltà, cosa nel mio caso impossibile, ma spingere ad immettersi sulla via della ricerca personale e, preliminarmente, ad eliminare in chi vorrà prestare attenzione il pregiudizio dell’inutilità della filosofia nella “vita reale”. La filosofia non solo è applicabile alla sfera quotidiana, ma propone un modo di leggere la realtà profondamente interessante e sostituibile in tutto e per tutto alle opinioni comuni, provvedendo col suo solo porsi alla loro distruzione o ad una loro accettazione critica (a mio giudizio sempre preferibile alla dogmatica imposizione). Non una questione di contenuti, dunque, ma di forma.

 

Personaggi

Antonino, pensionato (Elio)

Mariuccio, pensionato (Vito)

Narratore (Adriana)

Un gelataio (Alessandro)

 

Ma tu che te crede,

che a vita è accussì?

Nu passettin’ avante

e un’arrere?

A vita, bello mio, è…

 

NAR.              In un pomeriggio d’agosto insolitamente silenzioso, due signori passeggiavano fianco a fianco su una stradina costiera. Si erano fatte press’a poco le quattro, in lontananza si vide alzare una saracinesca: era l’ora di apertura della gelateria sul lungomare. Il proprietario, un omino grassoccio con dei baffetti arrotondati alle estremità, in evidente sforzo fisico per l’apertura della serranda ma in sé orgoglioso del traguardo raggiunto, si apprestava a scomparire nei meandri della zona frigorifero. Sarà stato forse il caldo torrido, fatto sta che i due pensionati furono prepotentemente attratti dall’idea di un cono gelato. Avvicinatisi con fare discreto e silenzioso (causa diabete), davanti al bancone si presentarono ringiovaniti di sessant’anni, come due bambini per la prima volta alle giostre. Ma il più anziano, al momento di ordinare il gusto del piacevole sfizio parve in difficoltà. E l’apparenza non ingannava.

 

ANT.              Un bel problema, proprio un bel problema. Aveva ragione Kierkegaard, non c’è cosa peggiore di quando si deve scegliere.

MAR.             Antonì, perdonami ma non ti seguo. Ch’è succiesso? Di chi stiamo parlando?

ANT.              Eh? No niente, pensavo…

MAR.             Ecco. E vorrebbe vossignoria rendermi partecipe? C’è qualche difficoltà? La bolletta l’hai pagata? T’hanno staccato un’altra volta il telefono? Lo sai che…

ANT.              Ma sì ma sì. Mariuccio, che ti devo dire? Ogni tanto i filosofi mi tornano in mente e mi perdo, come davanti alla scelta di questo gelato.

MAR.             N’ata vota un filosofo! Ma allora è una fissazione che tieni!

ANT.              Una vita difficile, povero ragazzo! Lui sì che capiva cosa significa essere indecisi. Un esempio a cui chiedere aiuto…

MAR.             Io non capisco perchè mai vai ancora appresso a gente che non sa quel che vuole fare nella vita. Antonino sono anni che te lo dico: lasciali perdere, chell’è brutta gente che non tiene niente da fare.

ANT.              Ohè, ci abbiamo il superuomo! Adesso mi vorresti dire che tu non ti troveresti mai in una situazione come la sua.

MAR.             Ma certo che no! Io dico, si facesse i fatti propri. Se lui non era capace di decidere, perchè deve valere pure per me? Ti faccio un esempio: se io mo’ volessi un bel cono alla nocciola, lo prenderei senza tante storie, tanto più che a me la nocciola piace assai. E soprattutto de-fi-ni-ti-va-mente, alla faccia di Kierkegaard! Nun’ è overo, cameriere? Conferma?

GEL.               I’ nun so’ cammariere, so’ ‘o principale…

MAR.             Eh vabbè adesso non sottilizziamo, non ci perdiamo in quisquilie.

ANT.              Ma tu sei proprio sicuro che è così semplice?

MAR.             Sì.

ANT.              Ma sicuro, sicuro?

MAR.             Ti dico sì.

ANT.              Ah, bene! Mi piacciono le persone piene di certezze. Ma senti un po’… oltre alla nocciola, che gusti ti piacciono?

MAR.             (col tono di chi sta per fare un lungo elenco) Ehhh, cioccolato, fragola, pistacchio, vaniglia, pesca, limone, “puffo”…

ANT.              Per carità! Fermi tutti! Che se dobbiamo fare tutto l’elenco finiamo alle calende greche. E poi o’ gusto “puffo”, un uomo di settant’anni… Vabe, ora rispondimi: ti piacciono tutti allo stesso modo? O ne preferisci qualcuno?

MAR.             Mah ti dirò… li mangerei tutti, eccetto la qui presente stracciatella. Non sarà mica un dramma!

ANT.              Ma quale dramma! E’ che mi sorge un dubbio…

MAR.             Che?

ANT.              Un dubbio…

MAR.             Giesù Giesù!

ANT.              Ascolta un attimo: ammettiamo che qui davanti a noi ci siano tutti e soli i tuoi gusti preferiti.  Facciamo pure finta che in questo momento qui davanti a noi non ci sia questo simpatico cameriere…

GEL.               (affaticato ed annoiato dalla discussione) So’ ‘o principale…

ANT.              La prego signore, non ci distraiamo. Dicevo, non abbiamo questa bella presenza ma pensa tu, al bancone chi ci lavora? Eh?

MAR.             (con tono esasperato) Chi ci lavora?

ANT.              La donna dei tuoi sogni! Ah, quant’è bella! Ah, quant’è dolce!

MAR.             Fosse ‘a Madonna!

ANT.              E ti dirò di più: la tua bella fanciulla, in un momento enigmatico (ma questo mistero femminile non è destinato a svelarsi) decide di offrirti un cono. Mo’ parliamoci chiaro, lei il cono non lo paga, perciò non puoi nemmeno fare il cavaliere e offrirglielo, che ti prenderebbe per fesso… capisci bene che non puoi, e dico non puoi rifiutare un’offerta così allettante, col rischio pure che lei si innamora di te.

MAR.             Eh beh… no

ANT.              Insomma, guarda che bella situazione in cui ti sei andato a cacciare! Mannagg’ ! Il gelato te lo devi prendere, non hai alternative; ma il problema è…

MAR.             E’…?

ANT.              Che gusto prendi, tra i tuoi preferiti?

MAR.             Uno vale l’altro, al massimo domani ripasso.

ANT.              E se mentre tu stai lì pronto a scegliere il tuo gusto preferito, mangiandoti con gli occhi la commessa e pregustando un dolce bacio al chiaro di luna, spuntasse accanto a te un brutto ceffo? Solo a guardarlo mette paura e tenta di precederti nell’ordinare il gelato, facendo così perdere l’ispirazione alla bella commessa.

MAR.             Ahi

ANT.              Eheh, mo’ voglio vedere che fai. Prendi una mazziata o perdi la tua bella?

MAR.             Beh… forse… ehm… se… no… insomma non lo so, ci devo pensare!

ANT.              Basta così. Amico mio, mi dispiace tanto ma è uno a zero e palla al centro per il filosofo.

MAR.             Nunn’ agg’ capito. Vulisse proprio vedè che lezione mi deve dare uno morto più di cento anni fa, per di più filosofo.

ANT.              Arrivo subito. Vedi, quando tu ti svegli al mattino alle cinque e decidi di fare qualcosa (che poi che vulisse fa’ ‘a matina ‘e ccinche), innanzitutto poni a te stesso un fine, oltre che un mezzo per raggiungerlo. Quando ad esempio volendoti sgranchire le gambe decidi di fare un giretto in bicicletta, pedalare diventa un mezzo, ovvero ciò tramite cui ottieni che le tue gambe si sgranchiscano.

MAR.             Ci sono

ANT.              E ti pare anche che tu pedali in vista di sgranchirti le gambe?

MAR.             Eh certo

ANT.              Dunque questo è il tuo fine. Mi segui?

MAR.             Sì

ANT.              Oh, adesso veniamo al gelato. Quando tu ti sei trovato davanti alla commessa dallo sguardo ammiccante, volevi raggiungerla nel talamo, non è così?

MAR.             Certo, e Afrodite ci dava pure la benedizione!

ANT.              Ecco. Come vedi, la commessa (che detto fra noi nunn’è cosa pe’ te) era il tuo fine. Un fine in vista del quale ti apprestavi a scegliere il gusto del gelato, un fine così importante da non potervi rinunciare… da porre un aut-aut tra i mezzi

MAR.             Che?

ANT.              Un aut-aut, una situazione in cui si può andare solo da una parte o dall’altra, senza una terza possibilità

MAR.             In effetti hai ragione

ANT.              In realtà, amico mio, gli aut-aut o Enten-Eller, come Kierkegaard intitolò il suo capolavoro, non sono tutti uguali. Innanzitutto per la posta in gioco e poi per il tipo di opposizione tra i due termini: infatti se sono tra loro contraddittori, ovvero l’uno la negazione dell’altro, non si può fuggire. Ad esempio, tra parlare e non parlare non ci sono alternative

MAR.             Eh ci credo!

ANT.              Tanto che se uno vuole fuggire dalla situazione e sta zitto, per l’appunto compie una delle due.

MAR.             Naturale!

ANT.              Mentre se c’è una terza possibilità che è la fuga, innanzitutto non si può fuggire all’infinito e talvolta non è possibile farlo poiché si rinuncerebbe a qualcosa di molto importante. Per così dire, nel primo caso è oggettivamente impossibile trovare una terza via, nel secondo (ed è il tuo) è soggettivamente impossibile farlo. Ma suvvia, torniamo a noi e al tuo amore irrinunciabile, beato te!

MAR.             Vai, ci sono

ANT.              O un gusto, o un altro. Però potevi scegliere tranquillamente, visto che qualsiasi cosa avrebbe accontentato la bella e il gelato ti piace. In effetti, qui ti si poneva anche un conflitto tra finalità.

 

MAR.             (incuriosito) Cioè?

ANT.              Potevi gustare il pistacchio o il cioccolato. Chiaramente sono due scopi aggiunti al primo e meno importanti della bella, ma pur sempre in conflitto tra loro, perchè tutto sommato equivalenti; e poi, come dicevo, sei stato indeciso tra i mezzi, cioè chiedere alla commessa il pistacchio o il cioccolato. A un certo punto, sicuro di perderci poco (era un aut-aut di scarso valore, “al massimo domani ripasso”, hai detto), stavi già pronunciando la parola magica quando… miseriaccia! Spunta il tizio dall’ aspetto sinistro.

 

MAR.             (oramai preso dal ritmo incalzante della discussione)E qui la cosa si complica, perchè c’era di nuovo un conflitto tra i fini, ma stavolta c’era parecchio da perdere…

ANT.              Bravo! Anche stavolta i premi in palio erano parimenti importanti, ma il guaio è che lo erano entrambi parecchio.

MAR.             Già… e io non sapevo proprio che fare. Eppure qualcosa la dovevo fare per forza.

ANT.              Avresti causato l’ira di entrambi non facendo nulla (che detto tra noi è già fare qualcosa)! E pensa che figuraccia!

MAR.             Già.

ANT.              Insomma, come vedi Kierkegaard ha solamente vissuto quel che viviamo tutti, solo ci ha riflettuto sopra, ha usato il suo ingegno. Si è comportato da uomo libero, che non ascolta oratori di alcun genere se non per ragionarci sopra e semmai essere consapevolmente d’accordo con loro alla fine.

MAR.             E poi? Ha trovato la soluzione?

ANT.              Sì, anche se con qualche difficoltà ed a caro prezzo. Se tu ti fossi assunto una responsabilità, poniamo che avessi optato per la bella, alla fine ti saresti trovato con un grosso macigno sulle spalle: la rabbia dell’energumeno e forse pure qualche bernoccolo. Agire responsabilmente, dice il nostro filosofo, porta ad una vita triste, quanto quella di chi non sa agire mai. Triste è il serissimo giudice Wilhelm! E l’irresponsabile Don Giovanni non sta messo meglio! Alla fine, da piccolo puntino in un universo infinito nel tempo e nello spazio quale ogni essere umano è, ha optato per un personalissimo rapporto con Dio. E mo’, col suo Santo aiuto, cameriere per me un “pino pinguino”!

ElioTratto da “Note di copertina”, programma radio in onda ogni lunedì alle 22 su ww.radioeco.it

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panta rei

panta rei


Posted By on Feb 27, 2017

La vita va avanti per tutti, che tu lo voglia o no.

La vita, la nostra realtà, nella quale ogni mattino veniamo catapultati, mi sembra un enorme palcoscenico. A volte nulla mi sembra reale. A volte, mi chiedo se sia tutta una finzione. Se facciamo tutti parte di un intero e grande sogno o incubo. E poi alla fine di tutto ciò, il sipario si chiuderà, con grande tristezza chiuderà i battenti. E noi, maschere e sentimenti, ci sgretoleremo come polvere. Diventeremo sabbia che viaggia nell’aria per dare vita ad altri e così il sipario si riapre e tornerà una nuova luce, una nuova speranza. Una nuova vita. Nuovi inizi. E il teatro della vita tornerà in scena con nuovi attori.

La vita va avanti per tutti. Scappa, senza che tu te ne accorga mai. Gli anni passano e con essi passano esperienze e restano i ricordi, le foto della memoria. Passa il tempo ed è come se, con esso, noi umani ci consumiamo, perché la vita ci mette alla prova, ci sfida. Siamo come rocce erose dal tempo che, però, resistono ad esso. Resistono ai giorni grigi, quelli in cui la natura si ribella. Resistono alle onde del mare che, con violenza, si infrangono contro di esse, levigandole. Ma nonostante ciò restano in vita, restano in piedi. Magari un po’ ammaccate, magari un po’ consumate, vissute, ferite. Ma pensandoci, è tutto ciò che ci rende vivi e non solo viventi. Il dolore, le lacrime, il cuore pieno di esperienze, i ricordi, la malinconia, la gioia che ti fa esplodere quella macchina interiore che poco usiamo o che usiamo troppo, chiamata cuore. Il dolore rende vivo l’uomo. Perché l’uomo ha attraversato bufere, deserti di umanità; ha attraversato mari soli e freddi e immensi. Ha faticato, ha sudato, ha pianto, ha sopportato i graffi causati dalla burrasca, dalla salinità delle acque. ha sofferto, per poi rinascere dalle sue ceneri, dal suo sangue, dai suoi brandelli di vita e di speranza, dalle sue urla di dolore e solitudine. Solo, nel cuore, come alle tre di notte in una stazione di provincia. Adesso, l’uomo è un girasole in vita.

 

 Rosi Portagnuolo

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Fil rouge: il progetto

Fil rouge: il progetto


Posted By on Feb 22, 2017

Maria Lai- Progetto per orditoFil rouge nasce da un’esigenza importantissima che è al centro del cuore dell’uomo: la ricerca della bellezza. Il grande ideale è la trama e l’ordito della nostra vita, è il vero e proprio fil rouge della vita stessa, filo spesso molto sottile e destinato ad essere spezzato.

Vogliamo davvero recuperare il fil rouge delle nostre esistenze e pertanto dedicarci ad una delle creazioni più elevate dell’animo umano: la poesia.

Insieme al mondo poetico, il blog è dedicato al mondo artistico e teatrale, con una particolare predilezione per la commedia.

 

 

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